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Ed eccoci in mezzo al miracolo. Ma il termine ci pare improprio e inadeguato alla portata dell’avvenimento. L’Italia in effetti non è diventata quello che è, attiva e prospera, da un momento all’altro, per forza di circostanze esterne e misteriose. S’è fatta da sé, attraverso il lavoro e il sacrificio di quindici anni. Il miracolo c’è stato per gli stranieri e i distratti rimasti a un’immagine convenzionale del nostro Paese.
Lo prova il fatto che esso, […], non è di natura puramente economica. La nostra società sotto la spinta dell’economia, s’è trasformata e continua a trasformarsi. Vediamo centinaia di migliaia di contadini che ogni anno abbandonano la terra e accorrono nelle città del nord. La patriarcale vita agricola è quasi totalmente scomparsa. Un numero sempre crescente di donne lavora, e le ragazze non accettano più passivamente d’essere considerate inferiori ai loro coetanei maschi, ma vogliono essere indipendenti e scegliersi la strada che preferiscono. La gente viaggia, vuol conoscere il mondo, non si contenta di sognarlo o di esserne vagamente informata. Si legge, si cerca di capire, non ci si piega all’autorità, sia quella paterna, o del maestro, o del prete. La democrazia sociale, per dirla con un’unica espressione, è in alto.
Niente “miracolo” dunque. È vero però, e dobbiamo ammetterlo, che negli ultimi anni l’espansione economica ha assunto degli aspetti particolarmente vistosi che hanno soffocato le altre trasformazioni in corso. La prosperità è diventata quasi una parola d’ordine. Gli italiani non soltanto sono più prosperi che in passato: si compiacciono d’esserlo. Non soltanto possiedono più beni materiali di una volta: godono di metterli in mostra. Accanto al benessere è venuto fuori un certo esibizionismo.
A volte, questo esibizionismo è così volgare che fa quasi rimpiangere i tempi in cui si era più poveri sì, ma anche più modesti e tranquilli. Chi ha comprato da poco l’automobile, vuole utilizzarla a ogni costo, anche se non è necessario (contribuendo a ingorgare il traffico) per il piacere di farsi vedere. Alla fine di ogni settimana bisogna assolutamente andar “fuori”. Così a cominciare col venerdì sera, i dintorni delle grandi città diventano una fiera rumorosa. La gente si affolla, si agita, suda, grida. La smania di vivere diventa isterismo. Sembra quasi che non credano alla realtà dei beni che abbiamo sotto gli occhi, ci si precipiti sopra di essi per goderli prima che scompaiano come un sogno. Invadiamo gli alberghi, le trattorie, i treni, i caffè, i luoghi di vacanza, a passo di carica.
E l’esibizionismo non è soltanto nella gente, è nelle cose. Si costruiscono edifici che sono una sfida al buon senso, che sembrano fatti solo per colpire l’attenzione. C’è uno spreco di vetri, di cromature, di pietre rare, che fa paura. Laddove basterebbe una pompa per la benzina e un bar per bere un caffè, si creano stazioni di servizio che occupano migliaia di metri quadri. Pur di costruire non si rispetta nulla. Si abbattono gli alberi, si deturpa il paesaggio, si massacrano quartieri pieni di memorie che hanno il solo torto di non “rendere”.
Si fa chiasso. Dappertutto si predica la lotta contro i rumori, ma la verità è che nessuno vuol saperne della pace e del silenzio. Sembra che si voglia esprimere col frastuono un’intima soddisfazione. Si grida, si canta, si suona, si va a tutto gas.
Anni di puritanesimo, e magari di ipocrisia, ci avevano sessualmente compressi. Ora ci scateniamo con un erotismo visivo che a volte sembra un sintomo di senilità precoce. Non c’è reclame, latte, salame, dentifricio, che non si accompagni a immagini sessuali. Si vive in un universo popolato di seni, fianchi, cosce, bocche provocanti. Dovunque par di leggere un invito a eccitarsi e a soddisfare i propri desideri.
Davanti a questi aspetti della vita di oggi, spesso restiamo perplessi e rattristati. Il benessere non sta forse raddoppiando la volgarità e la stupidaggine? Come quando si ha fame ci si rimpinza senza badare alla qualità; e siccome nessuno vuol essere da meno, si guarda sempre cosa fanno gli altri. Così finiamo per fare tutti le stesse cose. Chi ha più il coraggio di essere quello che è? Invece di sviluppare la personalità di ognuno, il benessere non sta spingendo le qualità individuali nel conformismo?
Si potrebbe continuare all’infinito. Sono queste riserve che nel cinema e nella letteratura dan luogo a un pessimismo che ripete, su un piano diverso, quello di venti anni fa. Allora era il pessimismo della miseria; oggi è quello della ricchezza. Si pretende che il denaro ci stia disumanizzando, rendendoci simili a macchine, a cose, incapaci di “comunicare” fra loro. Nasce così, un po’ frettolosamente, la poetica dell’ “alienazione”, della “non comunicazione” che trova, fra gli analfabeti, tanti stupidi seguaci.
[…]Quanto alla volgarità, non esageriamo. Non è stato sempre così? C’è mai stata un’epoca di sviluppo, di progresso che non abbia fatto esplodere nello stesso tempo gli appetiti più bassi, il fondamentale cattivo gusto della gente? […] A parte alcune eccezioni, da contare sulle dita di una mano, tutte le più grandi personalità del tempo furono ladri, speculatori, aggiotatori, gaudenti sfrenati.
[…] Smettiamola dunque di inorridire. La vitalità non è mai estetica né umana. È qualcosa d’irrazionale, che non rispetta nulla, che calpesta, direbbe Heine, “ogni gentil fiore”. E l’Italia di questi anni è essenzialmente un fenomeno di vitalità. Quindi è anche naturale che maltratti le sue bellezze, le sue città, il suo paesaggio. Una timida stradetta, con vecchie case a due piani, balconcini, giardinetti interni, è certamente un’oasi di poesia; ma per quanto poetica non può fermare (e ne avrebbe il diritto?) il piccone che la demolisce per far posto a uno sfacciato edificio di quindici piani, splendido di cristalli e di acciai.